La Disputa di Paolo Veronese.

Un'opera "singolare", una storia "singolare"

 

Orietta Pinessi

 

 

 

 

 

1. Paolo Veronese, Disputa di Gesù fra i dottori del Tempio. 1562 ca. Madrid, Museo Nacional del Prado.

 

 

«Che resta ancora da dire di Paolo? Crediamo più di qualche cosa» scriveva, nell'ormai lontano 1962, Remigio Marini1 ed è singolare come, per molte opere del Caliari, ancora oggi, a oltre quarant'anni da quella annotazione, la risposta non possa che essere la stessa. Ne è chiaro esempio una tra le tele più rappresentative del Veronese che continua a presentare quesiti irrisolti dando nel contempo per acquisite notizie affatto verificate: definita da Pignatti2 «uno dei più difficili problemi della filologia paolesca» è la Disputa di Gesù fra i dottori del tempio del Museo del Prado3.
Dipinta, come scriveva Venturi
4, «in un'atmosfera trasparente verde-oro, in una mite luce d'acquario» la scena si presenta soffusa di grazia, ma non priva di maestà e decoro. L'atrio del tempio di Gerusalemme che, dalla collina orientale dominava la città, costituiva il gran luogo di convegno dei pagani che trattavano là i loro affari, dei Giudei che vi si recavano per attingere le più varie notizie o per ascoltare le dispute dei dottori della legge; Veronese lo trasforma in un sontuoso ambiente adorno di pilastri e statue. Raccogliendo uno spunto acutissimo di Licisco Magagnato5 Marinelli annota che l'impianto dell'opera: «ci riporta con una puntualità impressionante in un ambiente architettonico proporzionato e preciso che coincide con la restituzione in alzato della Basilica Romana quale pubblicherà Barbaro su disegno di Palladio nel 1556»6. In realtà già la Brizio7 aveva notato analogie tra il motivo architettonico adottato da Veronese e la tavola con lo spaccato di un teatro romano pubblicato a p. 151 dei Dieci Libri di Vitruvio tradotti e commentati dal Barbaro e illustrati da Palladio, editi a Venezia nel 1556. «Ma», annota Lionello Puppi8, «con forte anticipo sul momento ragionevolmente ipotizzabile del primo incontro col Palladio nonché con Daniele (Barbaro, n.d.r.) e su quello della confezione delle tavole illustrative del Vitruvio9».
Perché Puppi parla di "forte anticipo"? La risposta finisce con l'essere inevitabilmente articolata: da una parte Puppi accetta il 1548 come data di esecuzione della Disputa, dall'altra è convinto che il primo incontro di Veronese con Palladio sia da collocare non prima dei 1552.
Andiamo con ordine e partiamo da quel "1548", la "strana data" che Michael Levey ha scoperto nel Gesù tra i dottori del Prado e illustrato nel 1960 in "Burlington Magazine"
10. Levey ha trovato (e l'evidenza non dà adito a dubbi) che sul taglio del libro in mano a uno dei dottori seduti sotto la colonna centrale è segnata in cifre romane la data MDXLVIII, 1548.
Convinto che quella data sia da riferirsi all'anno di esecuzione del dipinto, che risulterebbe perciò coevo alla giovanile pala Bevilacqua Lazise di Verona", il Levey tenta in tutti i modi di dimostrare che l'opera del Prado non è poi una gran cosa e che la pala Bevilacqua e i dipinti coevi non gli sono affatto inferiori. A tali inaccettabili affermazioni
12 lo studioso giunge perché, «accecato», come scrive il Marini13, «dalla fede idolatrica nel documento», non giunge nemmeno a considerare come ipotesi che quel 1548 nulla abbia a che fare con la data di esecuzione del dipinto.
È del resto innegabile, per chi appena conosce l'evoluzione pittorica del Caliari, la difficoltà di collocare nello stesso periodo l'opera del Prado e la Bevilacqua Lazise, la prima opera documentata di Paolo.
Eppure molto incerta era stata la critica in merito alla datazione dell'opera, e questo anche prima della scoperta del Levey: sulla base di criteri stilistici al 1574 la riferisce Caliari
14, al 1570 Osmond15, vicino alle tele Cuccina (e quindi intorno al 1571, n.d.r.) Coletti16 e Pallucchini17, mentre Berenson18 la colloca al 1565.
Nel 1963 Rodolfo Pallucchini
19, ribadendo l'impossibilità di una datazione comune alla pala Bevilacqua Lazise, la data alla seconda metà del sesto decennio. Terisio Pignatti20, accettata in un primo tempo la data del 154821, ritorna in seguito sull'argomento ammettendo che non si può ignorare «il carattere delle figure della Disputa e gli stessi colori velati e morbidi che fanno soprattutto pensare agli affreschi di San Sebastiano del 1558».
Ma tali considerazioni squisitamente stilistiche, che porterebbero ad assegnare l'opera alla maturità di Paolo, non sono unanimemente condivise, se anche Giuseppe Fiocco, cui si deve la particolare ripresa degli studi sull'artista veronese nel 1928
22, assolutamente ignaro di quel "1548", assegna la Disputa al periodo giovanile. Più tardi, ugualmente, Marini23 notando come il dipinto sia una libera copia dell'analoga tela di Jacopo Bassano nella Collezione Cure di Londra afferma che «non è da escludere che il Veronese ventenne traendo dal Bassano sia il modello, sia l'impostazione, e conferendovi il proprio ritmo e il proprio splendente cromatismo» avesse raggiunto risultati artistici di eccezionale maturità24.
Senza giungere agli eccessi del Levey, cui abbiamo sopra accennato
25, crediamo sia corretto considerare come l'opera del Prado presenti qualche incertezza compositiva che, se non voluta, la collocherebbe in una fase relativamente giovanile: la nostra attenzione è dapprima richiamata sulla sinistra e poi sulla destra, Cristo si rivolge al gruppo di dottori alla sua destra ma, dal lato opposto, emerge un personaggio quasi altrettanto importante.
Ma... il discorso rischierebbe di diventare ozioso se non affrontassimo quel 1548 da un altro punto di vista.
Per far questo riandiamo per un attimo alla prima citazione dell'opera è il Ridolfi
26 che nel fornire il primo ampio catalogo delle pitture del Veronese scrive: «[...] ma rivolgiamo il passo verso Padova [...] Erano ancora in quella città in Casa Contarina otto quadri di Sacre Historie di figure intorno al naturale, in uno entrava nostra Signora con più Santi, in altri Cristo tra Dottori [...]».
Più di un critico ha parlato di una «non meglio precisata casa Contarini» e qualcuno, con poca convinzione in verità, ha ipotizzato che si trattasse del palazzo Contarini di via San Massimo
27. Possiamo senza ombra di dubbio affermare che la "casa Contarini" a Padova esisteva ed era poco distante da Duomo: la prova ci viene da un'antica pubblicazione del tutto ignorata sino a oggi28».
Si tratta della Descrizione del viaggio fatto da Venezia a Verona da Paolo Contarini eletto Podestà di Verona e del suo solenne ingresso in quella città nel giugno 1562
29, l'autore è un compagno di viaggio del podestà e ci offre un saggio del modo sontuoso e principesco con cui i patrizi viaggiavano ed entravano nelle città che erano destinati a reggere. Il primo giorno dopo la partenza il futuro podestà giunge a Padova (dove si tratterrà per la notte): «Quivi fermò Sua Magnificentia et li vennero incontro messer Francesco [...] Messer Marco e Messer Filippo suoi figliuoli che stavano a Padova per causa di studio [...] li quali [...] lo condussero al Duomo nella sua casa». A ulteriore conferma dell'esistenza di questa "casa Contarini" nelle vicinanze del Duomo di Padova la descrizione che il sacerdote Vincenzo Devit, nella seconda metà dell'Ottocento, ci fornisce delle «Antiche lapidi romane della Provincia del Polesine»30, alla p.43 egli cita espressamente, parlando di due antiche lapidi perdute: «[...] la seconda in Padova in casa Contarini presso la Chiesa Cattedrale».
Casa Contarini, che si trovava dunque in piazza delle Erbe, non va certo confusa col palazzo Contarini di via San Massimo, nella zona est della città, fatto costruire da Marcantonio Contarini (che muore a Candia nel 1546) di un ramo che nulla ha a che vedere col nostro.
E sia "casa Contarini" sia Paolo Contarini che in quella casa, di sua proprietà, sosta per la notte nel 1562 ci rimandano inevitabilmente alla ben più famosa villa Contarini di Piazzola sul Brenta.
Piazzola sorge nell'Alto Padovano, a pochi chilometri a nord ovest della città; i Carraresi, signori di Padova, tennero Piazzola come feudo di famiglia fino al 1413, anno in cui un principe di questa famiglia, Jacopo, lasciò in eredità tutti i beni di Piazzola alla figlia Maria Carrara andata in sposa a Nicolò Contarini
31.
Per chi giunge da Padova, villa Contarini si presenta all'orizzonte con un'ampiezza che sfiora i 180 metri, ma la magniloquente apparenza barocca con cui si presenta oggi è il risultato della trasformazione secentesca, voluta da Marcantonio Contarini procuratore della Serenissima, del primo nucleo che alla metà del Cinquecento, e precisamente nel 1546, fecero edificare i fratelli Paolo e Francesco Contarini. Per tale nucleo centrale, poi completamente inglobato nel grandioso ampliamento successivo, gli studiosi sono ormai pressoché concordi nell'indicare il nome di Andrea Palladio. Dunque, sia il Veronese sia il Palladio ci rimandano ai Contarini; e Paolo (e Francesco) Contarini sarebbero quindi il primo caso di quel patriziato colto che si servì del pittore e dell'architetto anticipando nel tempo Giuseppe Porto, Francesco Pisani e Daniele Barbaro.
Una prima precisazione diviene a questo punto imprescindibile: grazie ai Contarini i contatti tra Veronese e Palladio sono dunque precedenti a quel 1552, anno in cui «messer Paulo Veronese pittore eccellentissimo» era già in cordiale rapporto con l'architetto se poteva intervenire nella decorazione a fresco degli spazi di palazzo Chiericati a Vicenza
32.
Il ramo dei Contarini cui facciamo riferimento era uno dei più ricchi e potenti dei numerosi (diciotto) in cui si articolava la famiglia: risiedeva a Venezia in San Trovaso, nel sestiere di Dorsoduro ed era detto "Degli Scrigni". Base della sua fama era proprio la proprietà di Piazzola. Pur non essendo feudo pieno iure la località godeva dell'esenzione da ogni dazio e i Contarini erano pure titolari del giuspatronato della chiesa, del diritto di mercato, pascolo, mulino e guardia armata.
Francesco e Paolo erano due dei dieci figli di Zaccaria Contarini el Cavalier (di Francesco di Nicolò e Contarina Contarini di Giovanni, 1452-1513) e Alba Donà di Antonio "Dalle Rose". Di Zaccaria è nota l'attività diplomatica nella quale giunse a ricoprire le maggiori cariche dello stato e a sostenere numerose ambascerie all'estero. Nel 1490 fu ambasciatore a Mantova in occasione del matrimonio di Francesco Gonzaga con Isabella d'Este e, nel '91, svolgerà un analogo incarico presso Ercole d'Este in occasione delle nozze di Beatrice d'Este con Ludovico il Moro. Nel '92 rappresenta la Signoria alle nozze di Carlo VIII con Anna di Bretagna, il re gli appare sgradevole di persona e al suo ritorno riferisce in Senato, nel settembre del '92, che era «tardus in locuzione». Non diverso il giudizio sulla regina di soli diciassette anni e zoppa ma «astutissima di sorte che quello che si mette in animo o con risi o con pianti omnino lo vuole ottenere»
33. Di nuovo ambasciatore presso il Moro nel '93, nel 1494 riparte per la Germania per ratificare la lega conclusa con il Pontefice, il re cattolico e Ludovico il Moro. La missione ebbe inizio il 4 maggio 1495 e si concluse positivamente qualche mese più tardi dopo che l'esercito francese era stato sconfitto a Fornovo.
 

 

 


2. Paolo Veronese, Disputa di Gesù fra i dottori del Tempio, 1562 ca., particolare. Madrid, Museo Nacional del Prado.

 

3. Paolo Veronese, Gesù e il centurione, 1570-1571. Madrid, Museo Nacional del Prado.
 

 


Il gradimento dell'imperatore si tradusse col conferimento al Contarini delle insegne di Cavaliere
34. Nel luglio del '96 è di nuovo a Venezia ove poté godere di tre anni di relativa tranquillità in cui ebbe modo di dedicarsi ai suoi dieci figli e all'amministrazione dei suoi beni cui aggiunse, nel 1498, uno splendido palazzo sul canal Grande a San Trovaso che da allora sarebbe diventata l'abitazione della famiglia. Ricoprì ancora numerosi incarichi ma, fatale, fu l'ultimo: nel 1508 parte per Cremona dove era stato eletto capitano35, il 14 maggio ad Agnadello la potenza veneziana crollò, il Contarini si rinchiuse nel castello di Cremona, ma il tradimento delle truppe lombarde ne provocò la consegna ai Francesi. Fu portato a Milano, quindi a Parigi36. Invano l'Imperatore cercò di ottenerne la consegna, come ugualmente inutili furono i tentativi messi in atto dai figli per liberarlo dietro pagamento di riscatto. La prigionia durò circa quattro anni e quando ormai la liberazione sembrava imminente si ammalò. Annota il Sanuto, l'11 aprile 1513, che certamente era giunta la notizia della sua morte perché «a caxa sua tutti pianzevano»37.
Dei figli, Francesco (1477-1558), il secondogenito (che con Paolo avrebbe fatto edificare il primo nucleo della villa di Piazzola), fu colui che più si prodigò per la liberazione del padre: «el qual fa il tutto per il riscato di suo padre». Anche Francesco ebbe una intensa vita politica cominciata comperando con 2.000 ducati l'ingresso in Senato
38. Divenne uno dei più autorevoli esponenti della oligarchia senatoriale e tra il '53 e il '56 fu tra gli elettori dei dogi Marcantonio Trevisan e Lorenzo Priuli. E tuttavia Paolo (con Pietro), ultimogenito di Zaccaria el Cavalier, il personaggio su cui conviene soffermarsi maggiormente.
Erroneamente il Dizionario Biografico degli Italiani riporta come data di nascita il 1510
39 epoca nella quale il padre era prigioniero in Francia (dal 1509 al 1513 anno della morte), al compilatore sfugge poi che, come scrive il Sanuto, «Sier Polo Contarini qu.sier zacaria el cavalier e Sier Piero Contarini qu.sier zacaria el cavalier erano zimeli40», nati nel 1493 ultimi dei numerosi figli di Zaccaria e Alba di Antonio Donà dalle Rose.
Poche le notizie nei primi due decenni del Cinquecento: un suo primo intervento in Senato si ha il 26 aprile 1509
41 quando (si discute della situazione a Cremona): «gionze qui el fiol dil prefato Zacaria Contarini Cavalier capetanio de Cremona, nominato Paolo qual riferì molte cose et che al di la tera fo in arme et le botteghe serate». Dall'ottobre del 1509 è imbarcato nell'Armata del Po'42 e con una serie di missive al fratello Francesco riferisce sulle devastazioni compiute ai danni dei Mantovani e dei Ferraresi a Corsole e alla Polesella. Lo stesso Paolo nel dicembre trattava col signore di Boissy, grande ammiraglio di Francia.
Nel 1524 sposa Vienna di Francesco Gritti (figlio del doge Andrea) nozze alle quali il Sanuto dedicherà parecchie pagine dei suoi Diarii.
«Al dì 12» di gennaio «fu fate le noze di la neza dil Serenissimo Principe nostro, fia di suo fiol, nominata Viena in sier Polo Contarini qu.sier Zacaria el cavalier [...] et luni si farà il parentà»
43.
«Al dì 15 [...] fu fato il parentà [...] il novizio a la porta del palazo vestito di negro et cussì li fratelli pur in negro». Alla data del 20 gennaio annota che «il Serenissimo vol far sposar la neza in chiesa di san Marco [...] poi montar la noviza con le donne in Bucintoro e condurle a caxa dil novizio sul Canal Grande a San Trovaxo; A dì 25 Zorno deputato al sposalizio di la neza del Doge [...] il novizio vestito di negro che per mia opinion fo mal fatto: in tal zorno dovevano vestir di seda o scarlato almen».
Segue, con dovizia di particolari, il racconto della festa e del pranzo fino al commiato quando «la noviza, nominata Viena, si butò ai piedi del Serenissimo: pianzando tolse licentia, et cussì fece il Serenissimo che si ingropoe et lacrimae etiam lui [...] e il sposo con la sposa si andarono ad aletar, che prima non avevano dormito insieme, perché cussì ha voluto il Serenissimo et non come si consueta far le altre noze che quel zorno danno la man, poi la sera dormino insieme; ch'è cosa mal fata». Paolo, come abbiamo detto, era gemello di quel Piero Contarini che era col padre Zaccaria, il capitano di Cremona, quando si verificò la rotta di Agnadello. Furono entrambi fatti prigionieri, condotti in Francia e separati poi a Lione: «Piero è andato a Lixignan de Lion, in un castello sopra la strada de andar da Bes a Perpignan et credo che el stagi ben
44». Pietro venne liberato insieme ad Andrea Gritti, il futuro doge, nell'aprile del 1513 allorché un provvido ribaltamento delle alleanze portò la repubblica a schierarsi accanto alla Francia con gli spagnoli. L'amicizia tra i due, sorta durante la prigionia, si rafforzò durante il lungo viaggio di ritorno a Venezia.
Ovvio che a tale amicizia non fu estraneo il matrimonio tra il gemello di Pietro, Paolo, e la nipote di Andrea Gritti. Di Pietro va detto che dal '24 è tra i procuratori dell'Ospedale degli Incurabili a Venezia, nel 1526 compie un pellegrinaggio a Gerusalemme. Prima di lui, a conferma di una particolare devozione "familiare", anche il fratello maggiore Francesco si era imbarcato, il 7 giugno 1515, su una galera diretta a Giaffa per compiere il pellegrinaggio in Terrasanta. Nel 1543 viene designato, senza esito, da Gian Matteo Giberti quale suo successore nel vescovado di Verona. Ebbe una fitta corrispondenza con sant'Ignazio di Loyola di cui il Contarini fu uno dei primi seguaci a Venezia nel 1536-1537. Da Ignazio, Pietro ricevette gli Esercizi spirituali e molto si prodigò per procurare quell'imbarco per la Terrasanta che lo spagnolo tanto desiderava. Nel 1557 Paolo IV gli conferì la nomina vescovile e l'8 agosto divenne titolare della diocesi di Pafo, in tale veste partecipò alla fase conclusiva del Concilio di Trento. E a Trento il 16 dicembre 1562 rinunciò alla sede a beneficio del nipote, figlio di Paolo, Francesco. Fece testamento a favore del fratello gemello, morì il 21 maggio del 1563 e verrà sepolto a Venezia nella chiesa di San Trovaso. Francesco (1536-1570) divenuto vescovo di Pafo, sarà ucciso dai Turchi. La connotazione filogesuitica dei Contarini si conferma nell'ultimo dei figli di Paolo e Vienna Gritti, Filippo
45 (1542-1577), che nel '72 si farà gesuita cedendo ai fratelli tutte le sue spettanze patrimoniali.

Riteniamo che il personaggio ritratto da Veronese nella Disputa sia proprio Paolo Contarini.
Ebbe un ruolo di spicco nella vita della Repubblica: fu senatore, capo del Consiglio dei Dieci, per tre volte Consiglier nonché capitano e vicepodestà a Bergamo dal 14 maggio 1545 al 3 giugno 1546
46.
Il 20 giugno 1547 «Paulus Cont. q.s.Zacharia» fu eletto podestà di Verona
47, l'incarico aveva la durata di 16 mesi e, dunque, fino all'ottobre del 154848.
Il 1548, ricordiamolo, è la data che compare sul libro aperto in mano a uno dei dottori della Disputa di Paolo Veronese e sembra a questo punto sostenibile la tesi che abbia a che fare non tanto con Paolo Veronese e, quindi, con la data di esecuzione dell'opera (il che non significa, come è stato scritto, che sia stata apposta in tempi successivi: troppo complessa l'elaborazione — le lettere sono spezzate in due dall'apertura del volume — per chiunque non sia l'autore del dipinto) quanto con Paolo Contarini ossia il personaggio che 'emergÈ fra i dottori alla sinistra di Cristo.
E, in merito, va senz'altro detto che pochi hanno considerato che il personaggio si presenta con caratteristiche ben precise: anzitutto è abbigliato, come nessun altro degli astanti, secondo i severi costumi indossati dagli uomini della seconda metà del Cinquecento, quando la Controriforma impone un abbigliamento severo e cupo, ma soprattutto indossa una mozzetta devozionale o votiva e sul petto, poco sotto la spalla sinistra, la croce caratteristica della Custodia di Terra Santa dei Francescani. L'abito si collega molto probabilmente a un pellegrinaggio in Terra Santa (pellegrinaggio compiuto, lo ricordiamo, sia dal fratello maggiore Francesco sia dal gemello Pietro), lo si deduce dal particolare della croce sul mantello e soprattutto dal fatto che il Contarini tiene in mano un lungo bastone nodoso tipico dei pellegrini
49.
Non si può invece accettare l'ipotesi, sostenuta nel catalogo del Museo del Prado, che si tratti di un "caballero del santo Sepolcro"
50 in quanto i Cavalieri del Santo Sepolcro, ordine di subcollazione pontificia, vestivano (e vestono) un mantello bianco51.
L'abito potrebbe pure rimandare a una confraternita: esisteva infatti nel Duomo di Verona sin dagli esordi del Cinquecento una "compagnia laicale del Santo Sepolcro", a questa compagnia si deve a esempio la costruzione, nel 1511, di quell'oratorio del Santo Sepolcro che più tardi mutò il nome in San Rocchetto e si trova ancora oggi sul monte Cavro presso Verona
52.
Anche nel testamento, inedito, di Paolo Contarini (testamento autografo del 19 dicembre 1561)
53 esiste un piccolo accenno a questa devozione: tra le monache beneficiarie troviamo quelle «al Santo Sepolcro». Il riferimento è al monastero annesso alla chiesa del Santo Sepolcro nel sestiere di Castello: «[...] fu fatto questo Sepolcro alla similitudine di quello di Gerusalemme [...] vi stanno monache della regola di San Francesco»54.

Come dicevamo è nostra convinzione che il "1548" della Disputa abbia a che fare con Paolo Contarini divenuto allora per la prima volta podestà di Verona; una ipotesi ci pare a questo punto sostenibile: nel 1562 il Contarini è di nuovo a Verona come podestà (farà il suo solenne ingresso nel giugno) non è da escludere che sia stata questa l'occasione per il dipinto e che la data impressa sul volume altro non fosse che un richiamo al primo suo incarico nella medesima città.
Del resto, il Veronese era da tempo in contatto con i Contarini: nella polizza d'estimo esibita ai Dieci Savi sopra le Decime da Vincenzo Zen fu Pietro (1502-1582)
55, alludendo ai propri beni immobili e relativi redditi, scrive: «Io Vinc.Zen fo de ms Piero fo de ms Catarin el Kr daro in nota le condition mie de tutti li beni io mi atrovo pervenuti in mi del q.mio padre [...] una casa da statio dove io abito posta in contra di Santo Apostolo sopra el fondamenta di Crosechieri [...] uno meza in corte de le Candele per altrettanto locho di sopra tiene I tuto ad afito s.Paulo Veronese pictor»56. Il Veronese abitava dunque dietro quel palazzo Zen situato tra il campo dei Gesuiti a est e la chiesa di santa Caterina a ovest, nei pressi dell'ospizio dei padri Crociferi. Come è noto57 - all'origine dell'ideazione e costruzione del palazzo è l'incontro tra Francesco Zen e Sebastiano Serlio. La paternità progettuale del palazzo è nota: Pietro Zen nel suo testamento58 del 1538 precisa «[...] Le mie case che fabbrico alli Crosechieri le siano compide al disegno che feze el quondam messer Francesco». Francesco Zen, figlio di Pietro e fratello di quel Vincenzo che sarà affittuario di Veronese, era amico e compagno di Francesco Contarini di sier Zaccaria el Cavalier, fratello maggiore di Paolo. I due erano accomunati nella "Compagnia dei Fausti"59 che raccoglieva i migliori patrizi della Dominante. Scrive il Sanuto il 19 febbraio 150360: «Vene a Rialto la Compagnia dei fausti, vestiti a comodo di veludo cremesin, calze a la divisa, una rosa tuto e l'altra meza bianca [...] quali sono Sier Francesco Contarini di Sier Zacaria el Cavalier e [...] Sier Francesco Zen di Piero».
E ancora: Nicolò Zen (1515-1565)
61, nipote di Francesco e di Vincenzo, sposa il 20 giugno 1535 Elisabetta di Giacomo di Pietro dei Contarini di Padova, il matrimonio si celebrerà nel Duomo di Padova. Tutto questo a dimostrare che il "contatto" tra Vincenzo Zen e Veronese sono proprio i Contarini "Dalli Scrigni" di San Trovaso.
La verifica della nostra ipotesi secondo cui la Disputa si trovava, nel 1648, quando la descrive il Ridolfi, proprio nella "Casa Contarini" di Padova dei Contarini "Dalli Scrigni" di San Trovaso proprietari della villa di Piazzola (villa il cui primo nucleo, ricordiamolo, era stato fatto edificare proprio da Paolo e dal fratello Francesco) ci giunge dal Barbaro
62 che, in una nota,precisa che proprio i discendenti di Paolo dal 1684 saranno detti "Piazzola" perché appunto residenti nella villa di Piazzola sul Brenta.

Rimangono tuttavia ancora alcuni "nodi" da sciogliere, il primo di carattere iconografico, il secondo strettamente documentario.
Scriveva Pignatti a proposito della Disputa
63: «Nessuno capisce veramente perché mai il Cristo debba essere posto su un altare tra due colonne al centro di una specie di basilica romana, con un tribunale in fondo e colonnati laterali». Per quanto concerne i tipi iconografici della Disputa, Veronese si rifà a una tradizione risalente almeno al XV secolo che presenta il Cristo dodicenne come un dotto umanista che discute con altri letterati o come un docente nel contesto di una lezione. Più che ascoltare o interrogare i dottori, come riporta la fonte evangelica (Lc 2, 41-52), egli sembra tenere un discorso a un uditorio che interviene solo con obiezioni e domande. Del resto i Vangeli apocrifi, come il vangelo di Tommaso e più il Vangelo arabo dell'Infanzia64, concentrano l'attenzione sulla scena del tempio sottolineando con forza la superiorità di Gesù rispetto ai più anziani interlocutori. Gli sviluppi iconografici non rimarranno insensibili a queste sollecitazioni. Non si può non citare a tal proposito il celeberrimo Cristo fra i Dottori realizzato, in soli cinque giorni, da Albrecht Dürer, durante il suo soggiorno in Italia e conservato oggi presso la Collezione Thyssen-Bornemisza di Madrid65.
Dürer aveva già inserito il tema del Cristo tra i Dottori all'interno di una celeberrima serie di silografie dedicate alla vita della Vergine affidando le sue riflessioni sull'episodio evangelico a una tecnica artistica dalle possibilità di circolazione pressoché illimitate. Il foglio
66 precede di qualche anno il dipinto di Madrid e presenta una interpretazione del soggetto notevolmente diversa. La sua fortuna in Italia può dirsi endemica. «Guardando in successione un dipinto di Paris Bordon a Boston, uno di Bonifazio dÈ Pitati a Pitti, uno di Jacopo Bassano a Oxford e uno di Paolo Veronese al Prado non si può apprezzare l'estrema intelligenza con cui questi pittori hanno saputo fare propria l'idea düreriana di spostare il Cristo dodicenne su un lato della scena e accentuare così il movimento della stessa»67. A ciò si aggiungano altre influenze, molto evidenti nell'opera di Veronese, come la studiata raffigurazione spaziale e la complessità dell'architettura del tempio, contraddistinta da grandiosità e imponenza. Il tutto è accentuato dalla presenza di vari gruppi di figure disseminati in diverse zone dello spazio. Il fulcro dell'opera düreriana è poi costituito — lo stesso si può dire per Veronese — dalla complessa dinamica degli stati d'animo e, di conseguenza, degli atteggiamenti che i dottori manifestano verso l'oratore seduto al pulpito.
Il Veronese si inserisce dunque in una tradizione ben consolidata che ha nella silografia di Dürer del 1503 il precedente più illustre.

E a riguardo degli artisti sopracitati, che in questi stessi anni si dedicarono al soggetto della Disputa, abbiamo scoperto — e ci pare una notizia significativa — che anche Bonifazio dÈ Pitati (Bonifazio Veronese, 1487-1553; ricordiamo il suo Cristo fra i Dottori di Palazzo Pitti)
68 a Venezia, dove è documentato dal 1523, conosceva e frequentava Paolo Contarini: il 28 dicembre del 1551 è testimone a una procura delle monache di Sant'Alvise a favore appunto del Contarini69.

L'ultima "questione", dicevamo, di carattere squisitamente documentario riguarda come e quando la Disputa del Veronese sia giunta in Spagna. Anche in questo caso è facile dimostrare come negli anni, per non dire nei secoli, vengano riportate notizie poco o punto verificate e si dia per acquisito che le informazioni siano ab origine corrette. Tutti coloro che si sono occupati della Disputa riportano sostanzialmente due fonti: il De Madrazo, Catalogo de los cuadros del Museo del Prado de Madrid, del 1843, e un articolo di Paul Lefort comparso in "Gazette des Beaux Arts" nel 189070; a esse si appellano per affermare che l'opera giunse in Spagna sotto il regno di Carlo II.
Vale la pena di verificare. Il De Madrazo scrive: «Es probabile que sea este quadro el mismo que existia en tempo de Ridolfi en la casa Contarina de Padua» e, in calce, aggiunge solo le fonti documentarie «Coll. De Carlo II R.AIc. y Pal. De Madrid, Salon de los Espejos, Col. De Carlo III, Pal. Nuevo, Paso del cuarto del Infante don Antonio».
Il De Madrazo
71 non sostiene che l'opera giunse in Spagna sotto il regno di Carlo II ma semplicemente che risultava inventariata nelle collezioni di Carlo II !
L'altra fonte citata è, come dicevamo, l'articolo di Paul Lefort
72 del 1889: in realtà si tratta di un brevissimo intervento e nelle poche righe dedicate alla Disputa si legge: «Décrite par Ridolfi qui la vit dans le palais Contarina de Pa-doue, elle est venue en Espagne sous le règne de Charles II».
La mancanza di note esplicative a questa "perentoria" affermazione porta inevitabilmente a ipotizzare che anche Lefort abbia attinto, come il De Madrazo, all'inventario della Collezione di Carlo II, il che non significa necessariamente che l'opera sia giunta in Spagna a quell'epoca.
Carlo unico figlio maschio sopravvissuto di Filippo IV d'Asburgo e della sua seconda moglie Marianna d'Austria, succede al padre nel 1665, a soli quattro anni, sotto la reggenza della madre. Solo nel 1675, terminata la reggenza, Carlo quattordicenne assunse i poteri regali.
A lui si deve il merito «non di avere arricchito il patrimonio» (5.539 quadri!), fatta eccezione per le abbondanti acquisizioni di opere di Luca Giordano, ma di «averne compreso, nonostante i suoi limiti, l'importanza [...] difendendolo dall'avidità che caratterizzava alcune delle persone che lo circondavano»
73.
 


3. Paolo Veronese, Gesù e il centurione, 1570-1571. Madrid, Museo Nacional del Prado.
 



La convinzione che la Disputa sia giunta a Madrid all'epoca di Carlo II nasce dunque dal fatto che "apparentemente" la sua "storia spagnola" ha inizio con un inventario che ne segnala la presenza in Spagna nel 1686
74: si tratta dell'Inventario delle Collezioni d'Arte dell'Alcazar compilato per ordine del Mayordomo Mayor del Rey don Bernabó Ochoa "jefe de la zerería": pur se redatto in forma breve con l'omissione di alcune scuole e molte attribuzioni errate, risulta il più completo.
Va tuttavia ricordato che pochissime sono le variazioni tra l'inventario del 1686 e quello precedente del 1666, e, ancora meno, in quello del 1700, alla morte di Carlo II.
L'inventario del 1686 comincia dal "Salon de los Espejos" ossia la sala che concludeva mirabilmente, con grandioso sfarzo e, soprattutto, con un incredibile numero di opere d'arte la teoria delle sale riattate sotto la direzione di Velâzquez.
Chiamato ancora "sala de comptos" nel 1626, acquistò importanza sotto il regno di Filippo IV quando fu significatamene appellato "salon grande" o "salon nuevo sobre el zaguân" o, in maniera più vaga: "pieza nueva sobre el zaguân". Si trovava al centro della facciata meridionale dell'Alcazar tra due antiche torri e nel cuore della parte più nobile del palazzo. Si stendeva su una vasta superficie e diverrà il più bel salone della residenza grazie alla sistemazione definitiva che Velâzquez porterà a termine poco prima della sua morte, tra il 1655 e il 1658. Solo allora, in ragione dei vetri di Venezia con cui era stato ulteriormente impreziosito verrà chiamato: "Salon de los espejos". Alle pareti, nuove opere di Velâzquez si aggiungevano a quelle che già ornavano la sala: l'aspetto del Salon ci è noto grazie alle numerose opere di Juan Carreno (1614-1685) che ritraggono la regina Marianna e il giovane Carlo II all'interno di questa sala. Dunque, come dicevamo, l'assetto definitivo è della fine degli anni cinquanta; purtroppo il Salon manca nell'inventario del 1666, ma già da quell'inventario, lacunoso, sappiamo che le opere più significative si trovavano nel Cuarto Principal con la Sala de las Furias, La Sala Nueva (il futuro Salon de los Espejos), il Salon de las Fiestas Públicas e la Galería del Mediodía. Nell'inventario del 1686, ai nn. 76 e 77 troviamo «Dos pinturas yguales de â ciuco varas y medio de ancho y tre de alto, el vno la Disputa del Nino perdido con los Rauinos original de mano de Paulo Berones [ .. ]».
È stato constatato che nei casi in cui i due inventari risultano completi, com'è nel caso della Galería del Mediodía
75 (riportata appunto in entrambi) la lista delle opere di pittura è identica, per cui si può ragionevolmente sostenere che la Disputa, e così tutte le altre opere del Salon de los Espejos, non compare nel '66 solo perché non è descritta la sala dove era collocata. Siamo altresì convinti che non fu acquistata sotto il regno di Carlo II (ricordiamo che le acquisizioni furono nulle fatta eccezione per le opere di Luca Giordano) e che anzi l'opera giunse in Spagna nel periodo che segue immediatamente il secondo viaggio di Velazquez in Italia.
Fu allora che Velazquez riattò la sala rifacendosi alla illustre tradizione che accostava quadri e ornamenti, affreschi e stucchi, tradizione di origine italiana che aveva fatto la gloria di Fontainebleau sotto Francesco I e ispirato il Becera al Pardo (1562-1563). Il precedente più immediato non poteva che essere la Galleria dei Carracci a Palazzo Farnese in Roma (1595-1603).
Considerando quindi che tale rinnovamento si ebbe immediatamente dopo il rientro di Velazquez e che molte delle opere da lui acquisite furono collocate nel Cuarto Principal, riteniamo sostenibile l'ipotesi che l'opera di Veronese sia stata acquistata proprio da Velâzquez.

Nell'anno 1648 fu «Don Diego Velâzquez [...] inviato da Sua Maestà in Italia per acquistare pitture originali e statue antiche [...] Partì nel mese di novembre del detto anno 1648 [...] si fermarono a Genova.. passò a Milano [...] passò poi a Padova e da lì a Venezia. Vide molte opre di Tiziano, Tintoretto, di Paolo Veronese [...] ebbe occasione di acquistare dello stesso Veronese due grandi quadri di storie della Vita di Cristo, l'uno era il miracolo di quel cieco a cui il Signore diede la vista, e entrambi miracoli dell'arte [...] non si arrischiò a portarli ritenendo più saggio lasciarli che metterli al rischio nella imbarcazione»
76.

Se è vero che non esiste alcuna fonte documentaria che informi con precisione sulle opere e sulle condizioni alle quali furono acquistate e che le cronache "indirette" non concordano spesso tra loro (ma il Boschini parla di «Due Veronese»)
77, è altresì vero che le informazioni del Palomino hanno ricevuto scarsa considerazione.
Si tratta certo di annotazioni approssimative (Palomino scrive a circa un secolo di distanza) ma, pur non precisando nei dettagli, sostiene che furono acquistate opere sia a Padova sia a Venezia. E le due opere con «le storie di Cristo» di grandi dimensioni non sono mai state messe in relazione con quelle che il Ridolfi vide, a Padova, in casa Contarini.
Le fonti cui attinge il Palomino, o il Palomino stesso, dimostrano scarsa dimestichezza con i soggetti religiosi perché di un'opera non si precisa il soggetto e dell'altra si parla del «miracolo di quel cieco».
Per quanto riguarda la seconda, siamo propensi a credere che si tratti in realtà del Centurione dinanzi al Salvatore descritto dal Ridolfi e ora al Museo del Prado
78, un'opera di 192 cm di altezza per 297 di base. L'iconografia è chiara e leggibile per chi ben conosce il testo evangelico di Matteo (8, 5-13) e Luca (8, 3-8) riportato anche in Giovanni (4, 46-50); in realtà solo nei due sinottici si parla di "centurione" che è in Giovanni un "funzionario", comunque un pagano, che dimostra la sua fede chiedendo aiuto al Cristo per il proprio figlio/servo malato.
Analizzando con attenzione l'opera di Veronese si nota che: il personaggio orante, il "centurione" perché abbigliato da soldato romano, non guarda verso il volto di Cristo e, anzi, la posa, gli occhi quasi vitrei e il fatto che coloro che lo circondano sembrano sorreggerlo, potrebbero far pensare a un cieco e quindi al miracolo della guarigione del cieco nato.
Anche in questo caso solo chi conosce l'episodio della guarigione del cieco nato (Gv. 9, 1-41) sa che riguarda un giovane «che stava seduto a chiedere l'elemosina».
Senza dimenticare poi che non esiste né tra le opere certe, né tra le opere attribuite al Veronese una grande tela, come indica il Palomino, che abbia per soggetto il miracolo della guarigione del cieco.
Del resto anche il Cristo e il centurione del Prado ha una storia controversa: già all'Escorial nel Salon del Capítulo del Prior, dove, nel 1657, lo descrive E Francisco de los Santos
79, secondo il più recente aggiornamento del Catalogo del Prado80 è «fra le opere realizzate per la famiglia Cuccina [...] Ridolfi la vede in casa Contarini nel 1648».
La prima annotazione fa riferimento al fatto che numerosi critici abbiano messo l'opera «in connessione» – e non "realizzata per" – con la serie dei dipinti per la famiglia Cuccina
81 (datati al 1571 n.d.r.) ma la precisazione "realizzata per" è in chiara contraddizione col fatto che «fu vista dal Ridolfi in casa Contarini». Nel catalogo del Museo del Prado del 198582, al contrario, si legge: «parece que» sia stata acquistata da don Alonso de Cardenas per Filippo IV nell'asta delle opere di Carlo I. Diversa la versione dell'ultimo aggiornamento del catalogo: «appartenne al Conte de Arundel, da questa collezione fu acquistata da Alonso de Cârdenas83 per don Luis de Haro84 che l'avrebbe regalata a Filippo IV».
Così Alonso de Cârdenas
85 racconta del suo incarico all'asta delle opere di Carlo I: «ricevetti una lettera da Filippo IV che mi incaricava di comprare opere di Tiziano, Veronese e altre antiche [...] ma dovevo muovermi con discrezione perché disdicevole che il re si approfittasse così della malasorte di un altro re [...] perciò mi ordinò di non partecipare all'asta ma di negoziare con terzi». Del ministro don Luis de Haro (1598-1661) marchese di Carpio scrive che a lui spettava il compito di occuparsi di ogni dettaglio «este pagaba de su bolsillo las obras si bien las mejores solian ir a parar a los alcdzares reales (una onerosa forma de mantenerse el puesto diria yo)».
Ma nel 1563 l'aumentare della concorrenza (giungono compratori da tutta Europa) e il numero sempre più esiguo di opere «me decidiera a abandonar la almoneda (mi portò ad abbandonare l'asta, n.d.r.) y dedicarme a la colección del Conde de Arundel que salía entonces a la venta» (che andava allora in vendita). Il riferimento è a Tomas Howard Conde de Arundel (n. 1585) che muore a Padova nel 1646; sette anni dopo, come abbiamo visto, la sua collezione sarà messa in vendita.
Cercando di mettere "ordine" ci rendiamo immediatamente conto che le date corrispondono poco: nel 1648 il Ridolfi vede l'opera (Cristo e il centurione) in casa Contarini a Padova, ma la stessa opera avrebbe dovuto far parte della collezione del Conte di Arundel e questo, ovviamente, prima della sua morte avvenuta, come abbiamo visto, nel 1646.
La contraddizione è evidente ...
Si aggiunga che Alonso de Cardenas fu ambasciatore a Londra dal 1638 al 1655, che dal 1649 fu incaricato degli acquisti all'asta di vendita delle opere di Carlo I per conto di Luis de Haro marchese del Carpio ministro di Filippo IV; da quella data, egli tiene informato il primo ministro con un numero consistente di lettere e memoranda
86. Purtroppo non ne ricaviamo la lista completa delle acquisizioni sebbene molte opere siano citate con autore e soggetto, nel caso di Veronese Cardenas cita un'unica tela (dal soggetto non precisato) su cui esprime le sue riserve: «Ci sono dubbi sull'autenticità [...] benché sia venduta come originale». Tra l'altro, il problema riguardava molte delle opere della collezione di Carlo I.
Ritornando dunque al catalogo del Museo del Prado l'annotazione «parece que fue adquirida por don Alonso de Cardenas en la almoneda de Carlos I» risulta essere a questo punto solo un'ipotesi.
A sostegno della nostra convinzione, e cioè del fatto che le due opere (la Disputa e Cristo e il centurione) viste in casa Contarini sarebbero poi state acquistate da Velazquez e in un secondo momento portate in Spagna, è un antico volumetto poco noto ma prezioso: è la Descrizione Odeporica della Spagna di don Antonio Conca»
87. Don Antonio Conca, "socio delle reali accademie fiorentine e dÈ georgofili" descrive con dovizia di particolari e competenza l'edificio e gli arredi dell'Escorial; giunto al «Capitolo del Vicario [...] che conta maggior numero di pitture»88 ne indica «gli Autori e gli oggetti che rappresentano [...] una Madonna seduta col Bambino tra le braccia originale di Tiziano» a proposito della quale precisa: «che presentò in dono a Filippo IV don Luigi di Mendez d'Haro e fu comperato dalla collezione di Carlo I d'Inghilterra». La stessa annotazione per Veronese89: «Il miracolo di Cristo alle nozze di Cana [...] che si comprò a Londra insieme con i già descritti che nobilitavano la Galleria dello sfortunato Carlo I». Tale precisazione manca del tutto quando don Antonio scrive del «Centurione genuflesso ai piedi di Cristo domandando la sanità pel suo figliolo»90. Riteniamo questa un'ulteriore prova del fatto che Il Cristo e il centurione non pervenisse dall'asta dei beni di Carlo I Stuart cosa che non può che confermare la convinzione che l'opera, vista in casa Contarini unitamente alla Disputa, sia stata acquistata da Velâzquez. Palomino racconta che egli non si arrischiò, probabilmente anche per le notevoli dimensioni dei due dipinti, a trasportarli via mare, ma questo non significa naturalmente che non abbiano in seguito raggiunto la Spagna per altra via... difficile pensare che opere di tal pregio siano poi rimaste in Italia.
Sarà lo stesso Velazquez, dal 1656 incaricato anche della selezione e collocazione delle opere all'Escorial, a 'dirottarÈ la Disputa nel Salon de los Espejos dell'Alcazar e il Cristo e il centurione nel Capítulo del Prior dell'Escorial.
 

 


 

Orietta Pinessi



 

 

 

ARTE Documento N°24  2008/2011                                                                © Edizioni della Laguna

 

 

 

P.S.: Nel testo corrente sono state omesse, per motivi redazionali, le note dell'autore.