Giuseppe Maria Pilo


Aspetti e problemi della pittura europea del Seicento. III.

Il Martirio di sant'Andrea di Jusepe de Ribera

 

 

1. Jusepe de Ribera, Martirio di sant'Andrea, 1628 ca. Collezione privata

2. Jusepe de Ribera, Martirio di sant'Andrea, 1628. Budapest, Szèpmüvészti Muzeum.

 

Stimo utile far conoscere una coinvolgente redazione del Martirio di sant'Andrea, replica, a mio giudizio autografa, non senza, forse, la partecipazione di un collaboratore abituale e di vaglia quale potrebbe essere lo stesso fratello Juan o il fido discepolo Juan Do, del grande quadro di egual tema dipinto da Jusepe de Ribera, firmato e datato 1628, ora nel Museo Nazionale di Belle Arti di Budapest. Già appartenente all'ammiraglio di Castiglia Don Juan Alfonso Enríquez de Ribera, documentato nell'inventario del 1647 di suo figlio Don Gaspar Enríquez de Cabrera ivi valutato la cospicua somma di 6000 reali, da lui donato al convento di San Pascual di Madrid, è descritto da Ponz che con la sua testimonianza rende certa l'identificazione del quadro: «[...] Dello Spagnoletto sono i due grandi quadri collocati ai lati di questo stesso passaggio: uno rappresenta un santo eremita e l'altro, il martirio di un Santo persuaso da un sacerdote all'adorazione di un idolo». Dopo gli sconvolgimenti delle guerre napoleoniche, il dipinto divenne proprietà del pittore e arredatore Andrés del Peral, dal quale fu venduto nel 1822 all'ambasciatore austriaco principe Kaunitz nella cui collezione di Vienna era ancora nel 1882, da questa passò in quella del principe Esterhazy a Budapest e da questi, infine, venduto allo stato ungherese per la sede attuale.
L'esemplare di Budapest, di dimensioni alquanto maggiori della redazione che qui si fa nota — misura cm 285 x 183 — è di grande importanza nel percorso del Ribera non solo per la data che reca nell'iscrizione, «Josephus a Ribera Hispanus / Valentinus Setaben. Acc.Rom. /Partenope F. / 1628, peculiarità che di massima si estende alla redazione di cui ora prendiamo conoscenza, a olio su tela di cm 198 x 178, che dalla tela ora a Budapest differisce in non pochi particolari: alla sinistra estrema in alto dietro l'armigero barbuto di profilo si affaccia il volto di un secondo personaggio, sono mutati i colori di molte vesti in particolare il mantello del sacerdote che tiene il simulacro di Giove a centroquadro, azzurro e i polsi di rosso anziché ocra, due tonalità di verde al mantello del carnefice in primo piano a sinistra e al velo sul capo della figura in secondo piano al centro in luogo di rosso, rispettivamente, e giallo oro; ma altresì per le circostanze, del più grande rilievo storico e artistico, in cui la splendida invenzione s'inserisce.
Ribera era a Napoli dall'estate del 1616; doveva essersi trasferito nella capitale del vicereame fra i mesi di giugno e di agosto al seguito o su invito di Don Pedro de Alcântara Tellez Girón y Guzman duca di Osuna, allora nominato viceré di Napoli, carica che terrà fino al 1620, patrono del Ribera e suo committente di un ciclo capitale di dipinti, quello per la Collegiata di Osuna, che costituisce, appena avanti il 1620, l'opera del maestro spagnolo tradizionalmente considerata la più precoce a noi pervenuta; e certamente, a veder mio, il precedente più cospicuo per le sue vicende pittoriche successive, fra le quali il Martirio di sant'Andrea spicca con particolare rilievo.
Le tele della Collegiata di Osuna rappresentano, in una sintesi densa di significati, la complessità della cultura e delle disposizioni del Ribera a quella data della sua prima maturità: una profonda conoscenza del Caravaggio, maturata a Roma soprattutto sulle tele di Santa Maria del Popolo e sulla Deposizione della Chiesa Nuova ora alla Pinacoteca Vaticana; ma insieme una non sopita attenzione a Raffaello e ai bolognesi a cominciare dal Reni, non tanto difforme da quella di artisti italiani coevi, come Bartolomeo Cavarozzi nel 1617 in partenza per la Spagna, dove inaugurerà un nuovo corso nelle relazioni pittoriche fra i due paesi sul terreno del "naturalismo spagnolo"; e ciò mentre Ribera – che giusto allora cominciava a essere conosciuto negli ambienti artistici della capitale pontificia come "lo Spagnoletto" – viene apprezzato nel novero dei naturalisti, dei pittori avvezzi a «dipingere con avere gli oggetti naturali davanti», come si esprime in quei giorni, scrivendone a Teodoro Amideno, Vincenzo Giustiniani, che a buon diritto annovera "Giuseppe Spagnuolo" fra i pittori «esercitati in Roma, che hanno saputo bene colorire», per lo più fiamminghi e olandesi quali Rubens, "Gherardo" (Gerrit van Honthorst  "delle Notti"), "Enrico" (Hendrik Terbruggen), "Teodoro" (Theodor van Thulden).
Si fosse dato o meno per lui un primo approccio al caravaggismo attraverso il supposto, ma non certo, alunnato valenciano presso Francisco de Ribalta portatore di un robusto naturalismo e di una vigorosa dialettica chiaroscurale esiti a lor volta di un ipotetico precoce viaggio italiano, le prime esperienze di Ribera in Italia erano state in Lombardia, da quasi un secolo dominio spagnolo, e a Parma, dove studiò il Correggio e fu al servizio del duca Ranuccio I  Farnese.

 

3. Jusepe de Ribera, Sileno ebbro, 1626 Napoli, Museo e Gallerie Nazionali di Capodimonte.

 

Si vuole, anzi, che in quel contesto Ribera abbia tratto motivo per la composizione del Sileno ebbro, l'opera firmata e datata 1626 unanimemente stimata dalla critica fra le maggiori della prima maturità del pittore spagnolo. Il dipinto, ora a Capodimonte, più probabilmente appoggiato a un rilievo marmoreo di età ellenistica o tardoellenistica o un'incisione fra le molte circolanti desunte da testi del genere, secondo una parte della critica desumerebbe da un disegno di Annibale Carracci per un vassoio d'argento appartenente alle collezioni Farnese che Ribera poté conoscere durante il soggiorno parmense. Siamo già, con questo, a ridosso del soggetto che qui ci interessa e, con esso, all'apice degli esiti delle prime esperienze caravaggesche del pittore; in qualche guisa temperate, certo, dall'ammirazione per Annibale Carracci nel fregio di palazzo Farnese, donde la scelta di certe tonalità di colore, e da qualche traccia di cultura classicista, com'è nell'elegante profilo del giovane in alto a destra: ma esplodenti in una poderosa, per non dir brutale, interpretazione del tema mitologico in chiave di lucida quotidianità, che gli fa il verso, a un tempo scomposta e ironica; una colossale presa in giro, che certamente sarebbe piaciuta al Velâzquez nel momento in cui a sua volta parodiava motivi classici – Los borrachos, è del 1628 – giusto alla vigilia del suo primo viaggio in Italia.
Si è molto discusso sulla priorità dell'uno o dell'altro maestro spagnolo nell'operare certe scelte, in direzione, com'è nel caso del Ribera, di un naturalismo che in parte superasse il realismo iniziale; a me non sembra dubbio che su questa via qualche suggerimento possa essergli derivato, in immediato prosieguo d'anni, proprio dal Velâzquez, come gliene derivarono nell'adozione, a contrasto con il precedente e generale 'tenebrismo', e a sua attenuazione e schiarita, di tonalità argentee: ciò che, nel complesso, conferisce alle sue scelte una più contenuta verità e una gravità esistenziale che, mentre per un verso si riprende alla lezione assoluta del Caravaggio, per altro convenientemente aderisce all'austera severità intellettuale dei soggetti volta a volta trattati.
È questo il caso del Martirio di sant'Andrea: dove l'atteggiamento di pacata, virile, stoica accettazione da parte del martire visibilmente e consapevolmente supera il cliché – peraltro abusato ed enfatizzato, specie fra XVIII e XIX secolo, a cominciare dal «Divino Marchese» François de Sade (1775-1776) e da lord Byron (1824 «[...] Spagnoletto imbeveva il suo pennello con del sangue di tutti i santi [...]») a Hippolyte Taine (1865) – del lugubre, dell'orrido, del macabro, del truculento, che per molto tempo ha condizionato l'apprezzamento della critica, e del gusto letterario, nei confronti dell'opera di Ribera.
Sarà giusto ricordare che, giungendo a Roma, il pittore abitò fin dal principio in via della Mercede, nella parrocchia di Santa Maria del Popolo, dunque in prossimità dei capolavori del Caravaggio in quella chiesa famosa, che aveva, per così dire, a portata d'occhio.

 

4. Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, Crocifissione di san Pietro, 1600-1601. Roma, chiesa di Santa Maria del Popolo.

 

5. Il Caravaggio, Deposizione di Cristo nel sepolcro, 1602-1604. Città del Vaticano, Pinacoteca.

 

Questo non basta certo a dar motivo, che era certamente ben altrimenti fondato, al suo animo e al suo occhio d'artista, dell'ammirazione che Ribera qui manifesta – nel Martirio di sant'Andrea, dico – per la Crocifissione di san Pietro del Caravaggio, dipinta, come si sa, fra il 1600 e il 1601: dalla quale è, a esempio, quasi una citazione l'emergere del braccio della croce in direzione dello spettatore, i piani e gli spigoli illuminati dalla luce immanente, a indagarne non già ogni particolarità e accidentalità fisica, bensì a sondare lo spazio e, ne consegue, a definire per questa parte l'ordito e gli assi della composizione. La vivacità degli interessi spaziali che Ribera a questo punto manifesta – ed è un punto importante della sua carriera e della sua produzione – trova conferma nell'attrazione, anche più mirata, direi, fra le coeve testimonianze romane del Caravaggio, ch'egli mostra di provare per la Deposizione nel sepolcro, che certamente ammirò nella cappella Vittrice della Chiesa Nuova, per la quale il Merisi l'aveva dipinta fra il 1602 e il 1604: quel testo capitale della pittura moderna amorosamente studiato e 'venerato' dai maggiori maestri, soprattutto stranieri e non solo caravaggeschi, presenti in quegli anni a Roma, a cominciare da Rubens che di lì a quattro anni avrebbe drizzato le sue tre grandi tavole di ardesia sulla tribuna dell'altar maggiore (1608), e Baburen, e Valentin; e poi Fragonard, Géricault, Cézanne, e altri ancora.
Prima, ed ecco la comprova della sua viva attenzione, a quel momento, ai problemi spaziali, Ribera coglie il senso di quel perentorio emergere dello spigolo della pietra sepolcrale a centroquadro in basso verso lo spettatore; e del valore di fulcro dell'asse verticale della composizione che la luce gli conferisce: al punto di trasferirne il valore e la funzione, qui, ancora una volta, nel braccio diagonale della croce su cui il santo è adagiato, le membra e il volto illuminati dalla luce fredda e vera cui è affidata l'individuazione compositiva della scena – e con ciò l'organizzazione stessa di essa; ed è insieme, significante della fede che irradia e sostiene la lucida consapevolezza del martire.

Ribera era consueto riprendere, anche più d'una volta, invenzioni, temi e composizioni, specie i più congeniali e, com'è verosimile, i più accetti e desiderati. Dal ricordato Sileno ebbro ora a Capodimonte, nel 1628, due anni dopo l'esecuzione di quel capolavoro, come ci attesta Palomino, per Gaspare Roomer il famoso mercante e collezionista fiammingo nella villa napoletana del quale a Monteoliveto probabilmente lo vide Sandrart che là lo descrisse, Ribera trasse un'incisione (Londra, British Museum), che presenta rispetto al quadro varianti in alcuni particolari. Più elaborato è il caso di almeno una delle cinque tele per la Collegiata di Osuna, a proposito delle quali varrà ricordare che, mentre il Calvario era stato sempre considerato dalla critica certamente autografo e la  prima opera del maestro a noi pervenuta, le altre quattro erano quasi da tutti assegnate a un «modesto copista»  fino a quando, di recente, a seguito di un radicale restauro Pérez Sanchez (1978) ha potuto accertarne senza più dubbi l'autografia. Il tema del Martirio di san Bartolomeo, soggetto di una fra le più intense, serrate e drammatiche tele del retablo mayor di Osuna, riferibile, come le altre, al primissimo tempo napoletano del maestro, fu nuovamente svolto da Ribera in una incisione datata 1624 e poco dopo, anche attraverso il 'collaudo' sperimentato in quel passaggio intermedio, nella splendida redazione già nella collezione Capponi di San Friano dov'è documentato nel 1677, acquistata per la collezione medicea come sembra regnante Ferdinando III dÈ Medici, dal 1828 nella Galleria Palatina di Palazzo Pitti. La redazione di Pitti si data circa il 1628-1630, in stretta prossimità di tempo con il Martirio di santAndrea, con il quale manifesta una avvincente contiguità specie per la distribuzione compositiva e per l'impiego sagace e rivelatore della luce.

 

6 Jusepe de Ribera, Martirio di san Bartolomeo, poco avanti il 1620. Siviglia, Patronato de Arte de Osuna.

 

7. Jusepe de Ribera, Martirio di san Bartolomeo, 1628-1630. Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina.

 

I successivi passaggi interpretativi di Ribera nello svolgimento del tema del martirio di san Bartolomeo, e le varianti operate in essi dal maestro, mi sembrano rivelatori; e interessano, in modo a veder mio illuminante per relationem, il rapporto che si stabilisce fra la redazione di Budapest del Martirio di sant'Andrea e quella, forse di un poco seriore, qui fatta nota.
In una finissima analisi della fortuna di Ribera, Pierre Rosenberg notava che fra i non molti copisti delle sue opere al Louvre — ma figurano fra essi Maurin nel 1876 e Matisse nel 1893 — nessuno può dirsi averne subito la suggestione; e faceva a esempio per questo i nomi «del belga Loris Gallet, del norvegese Ludvig Karsten, dell'austriaco Ferdinand Georg Waldmüller, [...] dell'americano Daniel Huntington». Fra tutti, Waldmüller risulta sia l'unico ad aver fatto oggetto del suo studio il Martirio di sant'Andrea, copiandolo nel 1821, un anno avanti il suo esordio con cinque ritratti all'esposizione 'canonica' all'Accademia di Belle Arti di Vienna, presso la quale era stato allievo, una decina d'anni prima, del 'nostro' Giambattista Lampi, e della quale sarebbe poco dopo divenuto professore e quindi direttore.

 

8. Ferdinand Georg Waldmüller, da Ribera, Martirio di sant'Andrea, 1821. Vienna, Gemäldegalerie der Akademie der bildenden Kunste.


È vero, Waldmüller non dà segno nella sua opera, che è specialmente di egregio ritrattista, di essere stato influenzato dalla lezione di Ribera; ma è di grande significato che nel suo piccolo dipinto in cui desume da lui, che tuttora si conserva nell'Accademia di Vienna, la sua acuta e prensile sensibilità di artista dimostri di aver colto e abbia saputo efficacemente restituire il fattore forse centrale del linguaggio del maestro spagnolo, la funzione della luce.

 

Giuseppe Maria Pilo


ARTE Documento N°20  2004 © Edizioni della Laguna

 

 

P.S.: Nel testo corrente sono state omesse, per questioni di spazio, le note dell'autore.