Laura Muti

 

Due dipinti di Antonio Zanchi

 

 

 

 

1. Antonio Zanchi, Isacco ed Esaù. Prato, mercato antiquario (già).

 

 

Una pittura ottenuta per forti contrasti, per violenti sbattimenti di luce. Una pittura studiata per rilasciare dalle tenebre frammenti di un mondo che si ricompone sotto i nostri occhi in forme e figurazioni di teatrale evidenza. Personaggi, oggetti, architetture, elementi della natura sgusciano dal buio, dalle ombre più dense ed entrano in scena, animandosi, riscaldati da smaglianti colori: vivono la loro storia nello spazio dello schema narrativo, sopra un palcoscenico che li vede protagonisti di una recita mantenuta sulle corde del dramma, sul registro di un'analisi schietta, tagliata di netto, ancorché consapevole dei limiti dell'eccesso e dell'artifizio. Uno sguardo al reale attraverso il filtro dell'acquisita sensibilità barocca, di un contesto cogente assunto però con prudenza e controllato nei suoi aspetti più retorici e spinti.

La pittura è quella di Antonio Zanchi: la poetica cui si fa pronto riferimento è quella del gruppo dei "tenebrosi", artisti sintonizzati su una sorta di naturalismo riberesco dai toni franchi e decisi, importato sulle lagune — sia pure in diversa accezione — da Luca Giordano e da Giovan Battista Langetti.

Un naturalismo originariamente estraneo alla sensibilità veneziana, alla sua tradizione pittorica e al suo modo d'intendere il colore: un naturalismo che immette a Venezia l'eco dell'esperienza caravaggesca oramai contaminata da un complesso intreccio di letture e di stratificazioni che ne sviano e ne modificano, per i troppi riflessi e col fluire del tempo, la valenza iniziale.

Cosicché per cercare di comprendere Antonio Zanchi attraverso la sua opera — al di là delle vicende che ne hanno sancito dal Seicento a oggi l'alterna fortuna — è forse necessario ripartire dallo specifico espressivo che ne connota l'identità, non così disgiunta, in vero, dall'esperienza veneziana per il colore, né così tanto saldamente accomunata a quella degli altri "tenebrosi" da non permettere un più capillare distinguo.

Ripercorrerne il percorso attraverso le opere, in sostanza, seguendo unica pista in grado di donare identità a un artista, si tratti dello Zanchi o di qualsiasi altro pittore, che come strumento principe ha scelto e si avvale del colore e del segno per dialogare col mondo.

Così, anche la presentazione di due sole opere (come avviene in questo contesto), per quanto esemplificativa di precisi momenti nel corso di un tragitto ben più vasto e variegato, può già di per sé essere sufficiente a incentrare il discorso sulla forma della pittura, sulla forma-sostanza di un linguaggio che nel suo costituirsi — pur avvalendosi ogni volta di un'elaborazione creativa capace di tessere relazioni articolate e complesse, difficili da dipanarsi totalmente — non può celare completamente, né tanto meno recidere, il legame dell'artefice con l'esperienza percepita e vissuta.

In questo senso, le due tele che qui si presentano, raffiguranti Isacco ed Esaù e Loth e le figlie, penso siano al contempo ben comprensive della qualità, della venezianità e della singolarità espressiva raggiunte da Antonio Zanchi nel solco di una tradizione figurativa che, per affermarsi nel corso del Seicento, ha dovuto trovare il modo e la forza di lacerare il proprio tessuto e di trasformarsi, per sopravvivere appunto nella continuità con altrettanto splendore.

Un vecchio cieco, un giovane bardato di corazza, una donna con in braccio un bambino e un altro giovinetto. Quest'ultimo, dalla penombra, osserva i due personaggi in primo piano cercando di afferrarne il dialogo, attraverso la cadenzata solennità di gesti che sembrano infrangere il silenzio.

Isacco tocca la spalla di Esaù inginocchiato dinanzi a lui e lo invita ad andare a caccia, mentre Rebecca e Giacobbe ascoltano il colloquio, pronti a mettere in atto il piano per trarre in inganno l'anziano capofamiglia. Il riflesso sulla lorica di Esaù, un magistrale tocco di bianco che si riverbera a specchio sul metallo finemente inciso, risulta una fonte luminosa di suggestiva intensità, simile a quella che investe il bel volto del giovane. Il netto contrasto tra la luce e l'ombra, che avvolge invece di scuro il viso e parte del braccio e del busto di Isacco, serve a creare spazialità e donare movimento a una composizione di per sé gravata d'antica maestosità.

Il rosso carminio del panno appoggiato sulla coscia dell'anziano personaggio, e da il debordante in pieghe e volute che ricordano per andamento certe soluzioni mutuate da Francesco Ruschi, assolve la medesima finalità: fa emergere all'infuori la parte bassa della composizione rispetto a quella alta, tenuta invece su registri scuri e assorbita dal fondo. Così, la staticità del racconto, attraverso soluzioni e artifizi figurativi si frange; la composizione si ravviva, si rianima e s'accende di una mobilità orchestrata su contrappunti cromatici, chiaroscurali e gestuali caratterizzanti la partitura ritmica e, al tempo stesso, la dimensione espressiva tipica di Antonio Zanchi, peraltro riconducibile al momento più convincente, originale e alto della sua carriera. La figura di Esaù è accostabile a quella di Daniele, per come l'artista lo raffigura nella tela dedicata al suo Martirio, conservata nella basilica di Santa Giustina, a Padova, mentre per la figura di Isacco non mancano raffronti con quelle di altri uomini in età avanzata che popolano, sia pure con diversi scorci e posture, i dipinti di Antonio. Non tanto per puntuale rispondenza morfologica, quanto per traduzione qualitativa (inscritta, appunto, per incisività e intensità in quelle masse anatomiche che ne determinano la sagoma e il volto), l'anziano personaggio può agevolmente accostarsi a quelli osservabili nel Sacrificio di Jefte, negli Angeli Custodi dell'Umanità, nel Martirio di san Bartolomeo, della chiesa dei Santi Nazaro e Celso a Brescia e anche in quelli, naturalmente, presenti in numerose altre opere dello stesso autore. Il bambino poi, in braccio alla donna, reso con spiccata solidità volumetrica, sembra memore della tornitura plastica che pone in risalto il bambino morto, di fianco alla madre, visibile nella Peste del 1630 a Venezia, conservata nella Scuola Grande di San Rocco. Qui l'artista calibra le forme e le modella con grande maestria, e – al di là dell'accentazione che caratterizza la diversa drammaticità del contesto narrativo – la resa di questi giovanissimi personaggi appare quanto mai convincente e sorprendente, anche in ordine a certe soluzioni poi riprese dalla pittura veneziana dei primissimi anni del Settecento.

La tela quindi, anche in linea con i testi figurativi appena menzionati, dovrebbe essere stata realizzata da Antonio Zanchi intorno alla metà dell'ottavo decennio del Seicento, quando la sua vis creativa e interpretativa, ancora integra, sembra al passo coi tempi e foriera di nuove sorprese e promesse.

 

 

 

2. Antonio Zanchi, Loth e le figlie. Collezione privata.

 

Al primo lustro dell'ottavo decennio del secolo, forse in anticipo di due o tre anni rispetto alla tela appena presentata, dovrebbe collocarsi anche la realizzazione di Loth e le figlie (fig. 2), di collezione privata, opera di straordinaria fattura che richiama alla mente, e prima ancora agli occhi, tutte le raffinatezze di cui è maestra la tradizione coloristica veneziana. L'ottimo stato di conservazione del dipinto consente di apprezzare la finezza esecutiva con cui è resa la superficie pittorica, viva e palpitante in ogni dove. Le campiture cromatiche modellanti le forme (i corpi, i panneggi, gli oggetti e il brano di natura inserito sul fondo), ancorché tradotte con l'intento di conferire ed esaltare la solidità e la robustezza delle masse – quasi la loro scabra, antica e sognata fisicità – formano un tutto unico, raccordato come in un abbraccio da una serie di sovrapposizioni e di incontri dolcissimi, volti all'insegna della leggerezza. Compenetrazioni di forme nelle forme, di linee nelle linee fuse con morbidezza, senza frapporre diaframmi artificiali, disegnativi, ai volumi nello spazio, cosicché questi, irrorati da flussi di colore, come per una sorta di vicendevole scambio, possono adattarsi e confluire l'uno nell'altro senza soluzione di continuità, esaltando la naturale modellazione delle cose e dei corpi. Nulla stride, nulla attenua l'incanto, tutto si accosta e vive in omaggio alla più soave armonia. Lo sguardo è attratto in modo rapsodico dai tanti particolari che ne catturano l'attenzione, obbligando l'occhio a continui passaggi e aggiustamenti: dal gioco delle stoffe, variate nelle tinte e nei panneggi, alla disposizione dei corpi di Loth e delle figlie, iscritti in una specie di moto rotatorio, fino alla ricchezza dei colori e alla loro modulazione luminosa, attenuata a tratti, accentuata in altri e impreziosità spesso da tocchi di bianco vibranti di luce, lumelli rilucenti che fanno scintillare d'oro e d'argento le brocche e i bacili e segnano con accesi serpentini cangiantismi il fuggevole disporsi delle pieghe. Basterebbe il senso ritmico misurato sul colore, sulle sue tonalità e sonorità, per fare di questo dipinto un piccolo-grande capolavoro emblematico dell'artista, e con esso riconoscere una volta ancora e di più la venezianità indiscussa che alimenta la sensibilità poetica di Antonio Zanchi, diversa da quella di Giordano, di Langetti e di Loth e lontana da qualsivoglia comoda catalogazione di gruppo inevitabilmente tendente a sminuirne la portata e il valore.

 

 

 

Laura Muti

 

 

 

 

P.S.: Nel testo corrente sono state omesse, per questioni di spazio, le note dell'autore.

 

 

 

 

ARTE Documento  N°14                                                                 © Edizioni della Laguna